Fundraiser dal profit
Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera c’era un articolo a firma di Enzo Riboni dal titolo: “Il non profit si mette la cravatta e assume manager della finanza: Si cercano responsabili amministrativi, direttori generali e fund raiser”
Riporto testualmente: “…. Il mondo «non profit» non è più solo un insieme di militanti volontari, di encomiabili idealisti votati alla causa ma privi di competenze gestionali. Soprattutto le grandi organizzazioni internazionali (da 30 a 70 dipendenti in Italia) sono alla caccia di manager, anche (e spesso preferibilmente) provenienti dalle aziende profit. Con fame particolare di due figure chiave non facilmente reperibili sul mercato: il direttore generale e il responsabile del fund raising. «Abbiamo condotto un’ analisi su oltre 50 organizzazioni non profit attive in Italia e abbiamo verificato l’ esistenza di una domanda fortemente in crescita rispetto a pochi anni fa», spiega Antonella Severino, partner di Mcs, società di ricerca e selezione attiva nel middle management. E la novità è proprio che per reperire quelle professionalità il non profit comincia a rivolgersi ai cacciatori di teste, mentre prima faceva tutto con il passaparola all’ interno di un mondo ristretto e autoreferenziale. «E’ vero, c’ è un osmosi sempre più intensa dal profit al non profit – conferma il direttore finanza e risorse umane di Medici senza frontiere Gabriele Eminente -. Noi per esempio abbiamo appena assunto un direttore raccolta fondi, una manager che viene dalla consulenza e poi dal settore carte di credito. Inoltre la responsabile risorse umane che collabora con me viene dal mondo automobilistico e, io stesso, fino a 4 anni fa mi occupavo di finanza in una multinazionale». “L’ interesse verso il non profit – spiega Severino – è dimostrato anche dal fatto che, agli annunci, rispondono anche 500 candidati con le caratteristiche potenziali richieste. Del resto, ora le grandi organizzazioni non profit offrono anche stipendi rispettabili: dai 70 agli 80 mila euro lordi l’ anno per i direttori generali e attorno ai 45 mila per i capi del fund raising. Spesso con bonus legati agli obiettivi del 10-20% sulla retribuzione annua”….”
Articolo interessante ma a mio parere, il discorso può valere esclusivamente per le grandi ONP, non per quelle medie e piccole che in Italia sono la maggioranza. Un fundraiser dovrebbe conoscere il non profit, dovrebbe fare volontariato, dovrebbe saper raccogliere fondi sia in “piazza” e sia dal grande banchiere, dovrebbe conoscere i volontari, dovrebbe conoscere tempi e metodiche di chi accetta “obbligazioni morali” e quindi non è vincolabile. Naturalmente tutto è possibile, ma per fare questo mestiere non basta solo studiare, serve molta esperienza (dicesi gavetta..).
Una volta, partecipai ad una selezione per una ONP che cercava fundraiser. Nell’attesa del mio colloquio, conobbi uno dei candidati. Non aveva esperienza nel non profit e tantomeno nel fund raising ma per quindici anni aveva venduto cioccolata per una multinazionale…mi sembrò una follia…ora comincio a pensare che presero lui…
L’articolo che presenti mi induce a fare due riflessioni.
La prima è che in Italia esiste un’economia reale, produttiva creata da organizzazioni che operano secondo principi alternativi all’economia del profitto. La cooperazione sociale ad esempio è riconosciuta come un caso tutto nostro sul quale altri paesi stanno studiando!
E’ ormai un processo in atto (e dal mio punto di vista assolutamente virtuoso), quello della professionalizzazione degli operatori del nonprofit.
Ed ecco la mia seconda riflessione. Cosa succede se tale processo di professionalizzazione si caratterizza con l’assunzione di pratiche, modelli, metodologie e cultura del mondo profit tout court?
Credo che le contaminazioni siano una grande occasione di crescita, ma come tutti gli scambi, hanno un senso se sono reciproci, diversamente si tratta di dominazione di uno verso l’altro.
Ecco quindi che auspico una presa di coscienza forte da parte delle ONP, rispetto ai valori, alle esperienze, alle metodologie proprie del nonprofit. Noi ci occupiamo di sociale, e in un dirigente di un’organizzazione il “noi” deve essere presente sempre. E allora ben vengano i venditori di cioccolata, se saranno disposti ad imparare e a trasformare l'”io” individualista con il “noi”. Ma soprattutto se le ONP saranno capaci di difendere la loro identità.
Cara Giovanna,
condivido pienamente. Senza scambio diventa “dominazione”. Senza “rapportarsi al caso concreto” (come diceva il mio prof. di Diritto Privato), diventa tutto omologato, identico, privo di differenze e questo porterebbe solo ad uno “sfruttamento” del non profit come mezzo per eludere o evadere..( e per questo è nato recentemente il modello EAS). Mi spaventa il non profit slegato dall’economia civile, dalla solidarietà e dal volontariato ma legato esclusivamente al mondo dell’impresa profit.