Io non lavoro a percentuale!
Non ho mai sentito di un professionista remunerato unicamente a percentuale o in base alle sue performance. A qualcuno è capitato?…..”dottore, se mi passa l’influenza, la pago“….”se questa pubblicità mi fa vendere i tortellini, allora la pago“…
Eppure succede spesso che un cliente si rivolga ad un fundraiser (o presunto tale, purtroppo) e gli proponga un pagamento basato unicamente sulla percentuale. “Mi porti 1000 euro e le do il 30%“. La tragedia è che qualcuno accetta e “certifica” questo modo di lavorare che non ha nulla in comune con il fundraising.
Non confondete il fundraising con la ricerca di sponsor. Nel fundraising il dono è un fine, non un mezzo.
Per raccogliere fondi in modo professionale ci vuole tempo, esperienza, lavoro, passione. Non si può improvvisare. Si deve creare un legame tra Buona Causa e donatore. Bisogna conoscere le tecniche, le diverse sfumature dei diversi ambiti di raccolta fondi (per esempio: sanità, politica, ambiente, cultura, scuola…ecc), investire in formazione, e conoscere il territorio.
Inoltre, una donazione non dipende solo da un buon piano di fundraising. L’organizzazione deve fare la sua parte, deve impegnarsi nell’affiancare il fundraiser nel suo lavoro e la classica scusa “noi non abbiamo tempo per cercare fondi, per questo l’abbiamo chiamata” deve essere un campanello d’allarme…un buon motivo per ringraziare e andare via. Lo so, ci vuole coraggio, specialmente in questo momento di crisi. Ma il lavoro si paga.
Il donatore ha il diritto di sapere che parte della sua donazione andrà alla spese di gestione dell’organizzazione e in queste spese c’è sicuramente il fundraising, ma anche le utenze, la manutenzione, il personale amministrativo..ecc. A me sembra che non ci sia nulla di scandaloso.
Io non lavoro a percentuale e vale lo stesso per tantissimi miei colleghi. Chi è socio Assif, (l’associazione italiana dei fundraiser professionisti) o di altre organizzazioni internazionali di fundraiser, ha sottoscritto un codice etico e comportamentale che vieta questo tipo di pratica.
Personalmente, posso prendere in considerazione dei bonus al raggiungimento di particolari traguardi, ma non prescindo mai dal richiedere un fisso mensile o forfettario per la mia consuelenza.
Se il mio lavoro non dovesse essere ritenuto dal cliente fruttifero, questi potrà mettere in discussione il mio compenso impugnando il contratto che abbiamo firmato insieme.
Chiederò ad altri colleghi di allargare questo dibattito e di farlo attraverso i blog e i tanti siti che parlano di fundraising.
Nel mio sito aziendale c’è scritto chiaramente come lavoro. Se tutti facessimo la stessa cosa, sarebbe più facile far comprendere al cliente come lavora davvero un professionista della raccolta fondi.
Caro Raffaele,
concordo pienamente con quello che scrivi. Purtroppo spesso cercano fundraiser a percentuale, ma facendo così le organizzazioni non capiscono che nn risolvono il proprio problema. Se lavorassi a percentuale, accetterei solo se ritenessi quella causa come facilmente finanziabile. Cosa accadrebbe con quelle cause difficili da finanziare o da affermare?
Poniamo il caso che io lavorassi a percentuale, caricando tutti i rischi di “impresa” sulle mie spalle, beh in tale caso non mi sentirei vincolato all’organizzazione e mi sentirei libero di legarmi ad un’altra causa più “vendibile” qualora ve ne fosse la possibilità, e l’organizzazione che mi ha incaricato di trovare fondi (a %) si ritroverebbe con il cerino in mano…sicuri valga la pena?
Caro Andrea, hai ragione…ora è arrivato il momento di alzare la voce per evitare di finire in un buco nero. Dipende da solo noi fundraiser!
Il problema c’è e non tende a diminuire. Soprattutto in situazioni di crisi come questa dove la crisi diventa quasi un alibi. Dobbiamo tenere duro, per il rispetto di quello che facciamo. Ne parlo anche sul mio blog, nello specifico qui: http://elenazanella.wordpress.com/2012/10/27/la-percentuale-del-rischio/
Grazie Raffaele per aver riproposto l’argomento e, naturalmente, non posso che dirti che quella della campagna è un’idea super! Ci sto.
Ciao Elena,
avevo letto il tuo post. Il mio nasce dall’ennesimo incontro con un cliente che pretende di pagare il compenso solo a percentale. Noi dobbiamo lanciare una campagna stampa che spieghi al NonProfit (ma anche agli Enti Pubblici) come lavora davvero un professionista del fundraising. Io mi sono davvero stancato di questa situazione….
Una prestazione professionale è prestazione di mezzi, mentre una prestazione aziendale lo è di risultato. Perciò vi giustamente i professionisti devono essere pagati sostanzialmente con un fisso ed eventualmente con un bonus sulla raccolta. Le aziende di funding invece assumono su di se il rischio impresa e pertanto si obbligano ad un risultato, potendo essere remunerate anche solo con una percentuale. Il problema non è di natura etica bensì giuridica. L’etica attiane al modo di stare sul mercato e di relazionarsi con la raccolta. Ideare un progetto win win, in cui siano soddisfatte condizioni di contribuzioni a cause sociali, magari inserite in contesti di promozione di filiera molto più articolate ed ampie, può essere una frontiera innovativa del funding che, stante l’autoreferenzialita che sta caratterizzando anche questo settore nel nostro Paese, determinerebbe un importante passo in avanti verso la cultura di quella economia civile che tutti auspichiamo, in nostro cuore.
Virgilio Gay
Grazie per l’intervento. L’argomento è davvero caldo. Più se ne parla e meglio è!
Raffaele Picilli