Un testimonial famoso, noto ai più, è solitamente detto “VIP”. V.I.P. è l’acronimo dell’espressione inglese “Very Important Person” ed è generalmente utilizzato per indicare quelle persone che diventano famose per appartenere al mondo dello spettacolo, dal cinema della politica o dell’economia.
Una domanda che mi hanno fatto tante volte é: “chi è il testimonial più adatto per promuovere la nostra buona causa?”
Esempio pratico. Associazione siciliana impegnata nella raccolta fondi per la costruzione di un centro di riabilitazione sociale per bambini diversamente abili.
Molteplici gli eventi e le azioni per la raccolta fondi programmati. Tra questi, uno spettacolo teatrale. Pubblico: 1000 persone.
Miglior testimonial? Sicuramente un genitore. Allego lettera scritta e letta da una mamma di un bimbo diversamente abile, prima dell’inizio dello spettacolo teatrale. Io la trovo bella, profonda, unica e sintetica.
Questa lettera ha avuto il risultato sperato. Quella sera, in 1000 hanno sostenuto in maniera generosa la buona causa e i media locali e provinciali hanno dato grande risalto a questo coraggioso “testimonial”: mamma Anna.
Stamattina , stranamente, mi sono svegliata presto, c’era come una molla che mi spingeva fuori dal tepore del letto, eppure è da tre notti che non dormo perché Michele ha la febbre. Michele è il mio piccolo angelo, da poco ha compiuto 7 anni, è affetto da una rara sindrome genetica.
Queste cinque lettere ci sono piovute addosso come delle granate il 2 ottobre del 2002 (giorno del 34° compleanno di mio marito) all’ospedale Bambin Gesù di Roma. A pronunciarle è stato un medico, devo dire con molta cautela, spiegandoci che così si chiamava la malattia da cui era affetto il nostro bimbo di otto mesi.
Ripeto è stata come se l’onda d’urto di un esplosione mi avesse colpito. Mi sentivo invasa dal dolore. I medici ci davano informazioni, noi cercavamo disperatamente notizie su internet, tutto e tutti ci dicevano della gravità della malattia, che comportava ritardo mentale grave, ma i miei sensi erano come ovattati, la mia mente si rifiutava di capire.
Il dolore che ho provato era simile a quello della perdita di un proprio caro. Il mio bimbo, così come io lo avevo sognato, come tutti noi genitori immaginiamo i nostri figli, che corrono, che cantano la canzoncina per te alla festa dell’asilo, che ti dicono la bugia tu li punisci e poi fate pace, che da grande magari faranno quello che tu volevi ma non sei riuscita a fare, il mio bimbo tanto desiderato non c’era più, era volato via. Ma non c’erano manifesti di lutto sulle mura fuori di casa nostra, bensì un dolore immenso da portare dentro di me, dentro le mura di casa nostra.
Si c’erano, ci sono e ci saranno sempre i nostri familiari, senza il cui aiuto non saremo mai riusciti ad affrontare questa nuova condizione, loro ti confortano, ti aiutano ad accudirlo, sono sempre disponibili,spinti dall’amore per noi e per il nostro bambino ma come noi nemmeno loro sapevano cosa fare per aiutarlo.
Mi ritrovavo con questo figlio che all’inizio non sentivo nemmeno mio. Provavo la sensazione che venisse addirittura da un altro mondo, tanto era “diverso”. Mi sentivo incapace, nessuno ti prepara a ciò, nessuno ti insegna ad essere genitore di bambini diversamente abili (a quei tempi non riuscivo a chiamarlo nemmeno così perché non erano abile a far niente, nemmeno a deglutire la pastina). Mi arrivano a casa le riviste tipo IO E IL MIO BAMBINO, che buttavo via con rabbia, invidia e mille altri sentimenti, li non c’è niente che mi insegnasse ad essere madre di un bambino come il mio.
Così vai avanti, giorno per giorno, perché devi andare avanti, lo accudisci, gli dai le medicine, lo assisti in ospedale, nei continui ricoveri, perché è più gracile e ha mille altri problemi correlati. Trascuri la figlia più grande, come nel suo primo giorno di scuola materna, la sua mamma non c’è, non la può accompagnare , è a Catania in ospedale con il fratellino; non puoi fare altrimenti, ma ti crei lo stesso i sensi di colpa.
Il tempo passa, lui cresce, tu ti senti sempre più impotente: lo chiami per nome ma sembra non sentirti; gli metti davanti decine e decine di giochi , luminosi , rumorosi , colorati, nessuna reazione; lo solletichi ma non ride; gli fanno le punture ma non piange. Impari ad amarlo così com’è, anche se il tuo amore è a senso unico, lui non ti da niente, nemmeno il sentirsi chiamare mamma, ma tu lo ami sempre di più, del resto il vero amore è quello che non chiede non nulla in cambio.
Poi l’incontro col “Piccolo Principe“, un’associazione nata su iniziativa di alcuni operatori del settore e volontari, convinti che con un intervento precoce, piuttosto che tardivo, mirato e personalizzato si possono sviluppare le abilità e le potenzialità dei bambini disabili. Constatata la carenza sul territorio di strutture in grado di accogliere e seguire bambini piccoli con disabilità, hanno avviato un centro dove tutti i giorni i bambini vengono stimolati seguendo programmi individuali. Li ho conosciuto altri genitori, altri bambini come i miei. Dagli operatori abbiamo , finalmente ricevuto indicazioni e consigli su come interagire con nostro figlio, non ci sentivamo più impotenti di fronte a lui. Ci hanno insegnato a crescerlo , stanno insegnando a lui a crescere.
A distanza di quattro anni Michele : se lo chiami si gira, ride di cuore se gli fai cavalluccio, prende il gioco che gli porgi, sta iniziando a comunicare i propri bisogni.
L’input datoci dai soci fondatori è stato per me come l’alito che Dio ha soffiato nelle narici di Adamo.
A distanza di alcuni anni, aiutati dall’associazione in questo percorso arduo, noi genitori abbiamo acquisito una forza e una consapevolezza che ci vede ora attivi nella vita dell’associazione.
Questa molla che oggi mi ha buttato giù dal letto, è si uno sfogo, è il comunicare un lutto che sei anni fa è rimasto chiuso nelle mura di casa nostra, è un aprirsi non facile per me ma, non è certo un mettersi in mostra, chi mi conosce sa che non è nel mio carattere, sono sincera, è soprattutto il coraggio di una mamma che scaturisce dal bisogno di essere “sostenuta”, il coraggio di una mamma che non ha vergogna di chiedere “sostegno”.
Colgo l’occasione per ringraziare le meravigliose operatrici e i sensibili volontari che ogni giorno donano ai nostri figli il loro prezioso, amorevole e paziente lavoro, ripagati anche solo dal sorriso di uno dei nostri bimbi.
Ringrazio tutti coloro che con la loro generosità ci hanno sempre sostenuto senza i quali non avremo potuto compiere tutto ciò.
Concludo con una frase di Pontiggia che a me piace molto: Ci sono bambini che nascono due volte; devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso difficile. La seconda nascita dipende da noi, da come noi riusciamo ad aiutarli.
Alla fine anche per noi sarà una rinascita.