Chiedere un’offerta vuol dire accettare da un donatore una somma di denaro che viene versata secondo le possibilità o il sentire del donatore. Dieci, cento, o semplicemente un euro. Nessuna costrizione o limite.
La somma da offrire potrebbe anche essere “suggerita” ( e qui sono maestri i colleghi fundraiser americani) ma mai imposta, altrimenti è una tariffa. Per esempio: “per questo pasticcino chiediamo una donazione minima di 5 euro”.
Ultimamente, purtroppo, parlando di fundraising o di raccolte di fondi, fare volontariamente o involontariamente confusione con i termini è sempre più di uso comune…Ecco un pratico esempio.
Un’offerta fissa di 300 euro per sposarsi fuori dalla propria parrocchia o di 150 euro per accostarsi al sacramento del matrimonio fuori dai confini del territorio diocesano . È questo il contenuto di un decreto che l’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti avrebbe firmato l’8 di agosto. Al contrario, per chi decidesse di sposarsi nella parrocchia propria o del proprio futuro coniuge, l’offerta resta libera.
Si legge nella nota dell’arcivescovo: «Il buon pastore non segue la logica umana del do ut des (e meno male..), ma quella divina del dono incondizionato (direi molto condizionato..) di sé». E ancora: «Ben sappiamo che la determinazione di una quota (quota sa molto di profit..) da dare per celebrazioni sacramentali intendeva evitare abusi. Ma dobbiamo anche riconoscere che un’offerta imposta ( ..e 300 euro sarebbero un’offerta libera?) è una contraddictio in terminis e pastoralmente se ne sente il disagio».
Nulla da dire sulla necessità di sostenere i luoghi di culto o le parrocchie…ma non chiamate offerte o libere donazioni delle vere e proprie tariffe…Lo so, sulle “offerte” non si pagano tasse.